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Melanzane crude si o melanzane crude no

Melanzane crude si o melanzane crude no?

 

Una domanda che molti si fanno: melanzane crude si o melanzane crude no?

Ho da poco comprato un libro di Clara Serretta,  su succhi e centrifugati di frutta e di verdure e ho scoperto succhi preparati anche con le melanzane.

C’è anche una pagina tutta dedicata ad una importante risposta: melanzane crude si o melanzane crude no?

Melanzane crude si o melanzane crude no?

Allora scopriamola insieme questa risposta.

In molti ritengono che le melanzane, se consumate crude, e quindi per esempio utilizzate come ingrediente di succhi e centrifughe, siano velenose.

Responsabile di questa loro presunta tossicità sarebbe la solanina, un alcaloide prodotto da alcune slonacee, quali patate e appunto melanzane, per difendersi da funghi e insetti, e quindi tossico.

Polpette di melanzane
Polpette di melanzane

In particolare il rischio di avvelenarsi, secondo alcuni si correrebbe soprattutto con le patate, la cui buccia presenta i livelli più alti di questa sostanza.

La verità è che procurarsi un’intossicazione da solanina un adulto di circa 70 chili dovrebbe mangiare 4 chili di patate crude, che non sono affatto pochi.

Nel caso delle melanzane il rischio poi è praticamente inesistente a meno che non si abbia una specifica intolleranza. 

L’alcaloide contenuto nella buccia non è la solanina, ma la solasonina, e per ingerirne una quantità tossica dovremmo mangiare 2 chili di melanzane crude con la buccia o 3-4 chili senza buccia.

Non si tratta, insomma, di quantità di uso quotidiano e questa sostanza viene eliminata dall’organismo nel giro di 24 ore, pertanto le dosi sono da intendersi “al giorno”.

Tra l’altro alcuni studi dimostrano che eccedere nel consumo di solanacee non è opportuno neanche dopo la cottura: gli alcaloidi velenosi che contengono, infatti, vengono distrutti a 240 gradi, una temperatura molto più alta di quella a cui noi cuciniamo abitualmente.

La buccia della melanzana è ricca di nasunina, un pigmento naturale di colore viola che ha l’importante funzione di preservare le cellule nervose dall’invecchiamento, rendendoci quindi più “intelligenti”.


Le Spezie: quel pizzico di sapore in più

Le Spezie: quel pizzico di sapore in più.

Largamente consumate nell’antichità, Le Spezie caratterizzano oggi la cucina piccante tipica dei paesi caldi. Forse perchè in quei climi radici e piante crescono bene e dai frutti “pepati”, che provengono dall’India, dall’Arabia, dall’Africa Orientale e dall’America Meridionale.

La cucina antica era sostanzialmente diversa dalla nostra. Un tempo, infatti, un buon cuoco era colui che sapeva rendere al meglio l’idea di “artificio” e la mescolanza dei sapori. Al contrario, oggi, in Italia e in Europa, si tende a distinguerli analiticamente (agro, dolce, salato, amaro, piccante…) e le preparazioni più apprezzate sono quelle in cui i condimenti sanno rispettare il naturale sapore di ciascun alimento. Queste semplici regole hanno, come ogni cosa, un’origine storica: sono il frutto della rivoluzione – anche gastronomica – avvenuta in Francia tra il XVII e XVIII secolo.

I Romani. De gustibus…

Molto diversi erano i gusti dei Romani. Si credeva allora che fosse sano ed equilibrato il cibo in cui tutti i sapori erano al contempo presenti. compito del cuoco era quello di modificare il gusto naturale dei cibi in qualcosa di inedito e diverso. A questo scopo utilizzava in abbondanza salse e spezie, meglio se piccanti. Così, oltre all’agrodolce, in età imperiale erano di gran moda condimenti ottenuti con l’uso di erbe, bacche, radici e del pepe, importato dal vicino Oriente a partire dal I secolo d.C. Quello del pepe fu subito un successo travolgente.

Arrivano gli Arabi

Nell’alto Medioevo, l’incontro con la cultura alimentare araba contribuì ad arricchire il gusto dei nostri avi. Oltre agli agrumi e allo zucchero di canna, gli Arabi suggeriscono l’uso di nuove spezie (coriandolo, cumino…), di cui almeno fino all’anno Mille furono i soli “esportatori”. La scienza medica medievale, da parte sua, attribuiva alle spezie un ruolo importante nel processo digestivo: si riteneva infatti che il calore generato dalle spezie, aiutasse la “cottura” dei cibi nello stomaco, favorendone l’assimilazione.

Scoperta del peperoncino

In Europa il peperoncino è arrivato in seguito alla scoperta dell’America. Fu il medico di bordo di Cristoforo Colombo, Chanca di Siviglia, a notare per primo che gli indigeni si cibavano di una spezia piccantissima che chiamavano agi. Quella spezia, subito valutata “più importante del pepe nero”, avrebbe avuto in europa una rapidissima diffusione, con il nome esotico di “pepe delle Indie”. Colombo la trovò ad Haiti, ma la piccante spezia era nota in tutte le Americhe. Reperti archeologici dimostrano che in Messico il peperoncino piccante (chili) era conosciuto già 9.000 anni fa.

Il pepe dei 3 continenti

La diffusione, e il successo mondiale, di certe spezie piccanti ha dell’incredibile. Prendiamo il caso del pepe di Cayenna : dalla notte dei tempi ha avuto fortuna presso popoli lontani e diversi gli uni dagli altri, seguendo percorsi estranei alle correnti mercantili dei bianchi. La pianta da cui nasce è un peperoncino rosso-arancio o verde, tra i più piccanti al mondo. Originaria dell’America tropicale, fu ritrovata dagli esploratori europei anche in Asia e in Africa, giunta fin li molto tempo prima della scoperta dell’America. Il suo frutto, seccato e macinato, è un ingrediente di molti piatti africani e caraibici, ma non solo. Quando gli ungheresi ebbero l’occasione di conoscerlo, lo inglobarono senza esitazione nella loro cucina tradizionale, ribattezzandolo paprika.

PICCANTI MIX

Chi ama la cucina piccante, apprezza anche i mix di spezie. Ne elenchiamo qui alcuni:

Berberè: miscela piccante essenziale nella cucina etiope. Raccoglie circa 15 spezie tritate tra cui zenzero, coriandolo, noce moscata, chiodi di garofano, cannella, il pepe nero e dosi massicce di peperoncino piccante.

Colombò: a base di curcuma, polvere di riso, coriandolo, pepe, cumino, fieno-greco, è tipico della cucina delle Antille francesi. Ne esistono svariate versioni.

Curry: in Europa questo preparato, che può contenere una decina di spezie, tra le quali la foglia della pianta omonima (Murraya koenigii), è venduto già pronto. Nel continente indiano è invece preparato variando ingredienti, dosi e quantità a seconda dei gusti e della disponibilità di spezie.

Garam Masala: miscela indiana di spezie piccanti, usata per dare l’ultimo tocco saporito nella cottura dei curries. Ne esistono svariate versioni, ma gli ingredienti di base sono il cardamomo, la cannella, il pepe nero, il cumino, i chiodi di garofano e la noce moscata.

Fonte Anita Tocci

Il Mistero del Fungo

Il Mistero del Fungo.

Per secoli, l’uomo ha continuato a mangiare funghi senza sapere quasi nulla di loro, se non poche informazioni assunte in modo empirico. Di sicuro scoprì ben presto la loro squisitezza ma anche quanto potessero essere pericolosi.

Cos’avrà provato l’uomo preistorico la prima volta che si è imbattuto in u fungo? Stupore e curiosità? Timore e diffidenza? Forse tutte queste cose messe insieme. Perché i funghi sono attraenti, appetitosi, ma -persino oggi che  la scienza ce li mostra al microscopio- restano avvolti in un’aura di mistero. con la loro fora ad ombrello, compaiono quasi all’improvviso nei boschi e nei prati. Sembrano nascere dal nulla. Alcuni poi sono velenosissimi. L’uomo preistorico lo scoprì certo a sue spese.

Appetitosi da scoprire

Con buona probabilità, affermano gli studiosi, l’uso dei funghi come alimento ebbe inizio dunque nella preistoria. Prima di imparare a coltivare e allevare, infatti, l’uomo cacciava e raccoglieva. E tra le erbe e i frutti da raccogliere, in un autunno trovava anche i fughi. Alcuni eduli, altri letali. Imparò a conoscerli e a mangiarli e ne fece un’appetitosa fonte di cibo. Passarono i secoli, ma non il successo del fungo. Nel vicino Oriente, aveva un posto d’onore sulle mense degli antichi Egizi e dei Babilonesi. Nell’estremo Oriente, in Cina, in dai tempi più remoti i funghi erano chiamati con reverente rispetto “cibo degli dei”.

Temuti dai Greci…

Riguardo al consumo di funghi da parte dei Greci e dei Romani, invece, le notizie (non sempre buone) ci giungono da illustri storici e scrittori. Euripide riferisce in un suo brano di una donna che con la sua famiglia rimase ” strozzata per averli mangiati”. Erano un cibo gustoso, ma da cui stare in guardia. Per evitare inconvenienti, bisognava studiarli bene. Così, ecco le prime osservazioni “scientifiche” sui funghi e tartufi: le fece nel 300 a.C. Teofrasto, allievo e successore di Aristotele nella guida del Liceo. Senza mancare di elogiarli, ne rimarcava la mancanza di fiori, frutti, gemme o foglie. ciò rendeva la loro riproduzione un vero mistero.

… cantati dai Romani

Dall’Ellade il fungo arrivò a Roma, dove fu subito molto apprezzato dai buongustai ed esaltato dai letterati, come il poeta Giovenale – funghi e beccafichi era il suo piatto preferito-, Plutarco, lo scrittore greco che visse a Roma, e infine il poeta Orazio, che considerava i prataioli superiori a qualsiasi altro cibo.

Nei banchetti di età imperiale, i funghi non mancavano mai. Conferma la predilezione dei “cesari” per questo cibo il nome di un fungo, ancora oggi consumato con piacere dagli intenditori, il quale da allora porta il nome di Amanita caesarea. I funghi entrano così di prepotenza nella storia della biologia e della gastronomia. Il primo autore a descrivere dettagliatamente caratteristiche e qualità dei funghi fu Plinio il Vecchio, nella sua grande opera Naturalis Historia, mentre un suo contemporaneo e famoso buongustaio, Marco Gavio Apicio, ne codificò una lunga serie di ricette nel De re coquinaria.

A prova di scenziato

Per i successivi 1.500 anni, nessuno riuscì a dare una risposta esauriente circa la riproduzione e la crescita di questi strani organismi. Gli erboristi del Cinquecento si interessavano più alle proprietà terapeutiche di alcuni funghi che alla loro natura, e si accontentarono, di fatto, delle notizie ereditate dai Greci e dai Romani.

Nel 1552,il tedesco Gerolamo Bock scriveva che funghi e tartufi altro non erano che “l’umidità superflua della terra, degli alberi, del legno marcio e di altre sostanze in putrefazione”. L’ostacolo insormontabile, per la scienza del tempo, era l’apparente mancanza di qualsiasi tipo di processo riproduttivo, la cosiddetta – presunta- generazione spontanea dei funghi. Le spore fungine, responsabili della riproduzione, sono infatti microscopiche e gli strumenti dell’epoca non erano in grado di rilevarne l’esistenza. Il mistero, dunque, restò a lungo fittissimo.

La verità svelata

Ciò che oggi sappiamo sui funghi, grazie a studi di carattere tossicologico, ecologico, patologico e sistematico, è una recente conquista. Le scoperte decisive della micologia si devono infatti a studiosi del Novecento, come l’italiano Bruno Cetto.

A maggior ragione, quindi, rendiamo il giusto onore ad un altro italiano, Pietro Antonio Micheli, che nel Seicento, accorgendosi dell’esistenza di una particolare polvere emessa dai corpi fruttiferi maturi, riuscì a dimostrare che i funghi si riproducono per spore e, così, sradicare la millenaria convinzione sulla generazione spontanea.

Fonti Anita Tocci

 

 

L’Oliva. Civile e Leggendaria.

L’Oliva. Civile e Leggendaria.

La sua pianta è uno dei simboli più antichi del mondo mediterraneo, in quanto risorsa alimentare preziosissima ma anche segno di una civiltà evoluta.

L’uomo coltiva, e consuma, le olive da almeno 6.000 anni, dall’alba, cioè, delle prime grandi civiltà. Non si tratta di una semplice coincidenza. La coltura olivaria può infatti esistere soltanto nel contesto di una società stabile, e quindi dotata di un’organizzazione politica ed economica complessa, perché richiede approfondite conoscenze botaniche, pratiche agricole sofisticate e il perfezionamento di tecniche di lavorazione specialistiche.

Uno storico successo 

I primi alberi di olivo comparvero nell’Asia Occidentale, tra il Caucaso, le pendici Ovest dell’Altopiano Iraniano e le coste di Siria e Palestina. La loro coltivazione era però destinata a dilagare in tutta l’area mediterranea. Così, tra il 5.000 e 1.500 A.C., migliaia e migliaia di tronchi ritorti rivestiti di piccole foglie argentate presero a disegnare il paesaggio della Mesopotamia, di Creta e di tutta la Grecia, della Turchia del sud, di Cipro e dell’Egitto. Con l’espansione delle colonie greche, poi, nell’VIII secolo A.C. la coltura delle olive raggiunse il sud Italia ed il nord Africa e si propagò anche nel sud della Francia. Gli olivi furono successivamente piantati in tutto il mediterraneo sotto la dominazione romana. Secondo lo storico Plinio, la penisola italica produce il migliore olio d’oliva a prezzi ragionevoli già nel primo secolo dopo Cristo.

Le leggende dicono…

Quando si tratta di origini tanto antiche, ecco che a fiorire il dato storico intervengono la leggende. Così, pare che agli Egiziani l’olivo sia stato donato dalla potente Dea Iside, e che in Grecia sia spuntato grazie all’intervento della Dea Atena. Secondo la tradizione Ebraica, in Palestina la pianta era già conosciuta ai tempi di Adamo. Da sempre, e ovunque, l’olivo ha simboleggiato pace, fecondità, forza e purificazione. Una corona d’olivo, in Grecia, era il segno della vittoria nei giochi olimpici, a Roma era l’onorificenza che meritavano i cittadini più insigni. Inoltre, nel mondo antico era diffusa la credenza che l’olio do’oliva conferisse forza e giovinezza, in Egitto, in Grecia e a Roma un infuso d’olio profumato con i  fiori ed erbe era usato per produrre medicine e cosmetici.

L’Olivo dei Cristiani.

Per i Cristiani e prima ancora per gli Ebrei, l’olivo era ed è un segno di augurio e di pace. Fin dai tempi di Noè. La colomba che fece uscire dall’arca dopo il diluvio universale, tornò indietro con un ramoscello di ulivo nel becco. Fu grazie a quel segno che ” Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla Terra” . Nella cultura Ebraica, poi, l’olio veniva usato per consacrare gli arredi di culto e i Sacerdoti. Il Cristianesimo ha ereditato dai ” Fratelli Maggiori” entrambi i simboli. Infatti, la Domenica delle Palme rami di olivo sono distribuiti ai fedeli in segno di festa e di pace, mentre l’olio compare nella maggior parte nei Sacramenti, dal Battesimo alla Cresima, dall’Ordinazione Sacerdotale all’Unzione degli infermi.

Il merito dei Monasteri

Nel Medioevo olive e olio d’oliva iniziano a scarseggiare in tutta Europa. L’olio vale talmente tanto da essere considerato come denaro contante. Sulla mensa dei ricchi è un emblema di opulenza. Sulla mensa dei poveri scompare del tutto. Olivi coltivati restano soltanto nelle terre di Monasteri e spetta ai Fratelli celari, responsabili della dispensa, distribuire ogni giorno a ciascuno l’olio necessario per condire i cibi. La destinazione principale dell’olio in questi secoli soprattutto liturgica: serve per impartire i sacramenti e per illuminare il Tabernacolo e l’Altare del Signore.

L’olio e la riforma.

Il mondo Cristiano ereditò dunque dai Greci e dai Romani la triade alimentare grano, vino, olio, consacrata dai significati simbolici di fondamentale importanza. Quando il Re franco Carlo Magno, nell’800, divenne Imperatore del Sacro Romano Impero, la conversione dei popoli ad esso sottomessi fu anche alimentare. Fu introdotta la regola del digiuno penitenziale. Per lunghi periodi la carne era sostituita dal formaggio, uova e pesce. E un grande ruolo toccò all’olio di oliva. La sua inarrivabile preziosità fu scalfita soltanto diversi secoli più avanti, con l’avvento della Riforma protestante, anche nel campo dell’alimentazione.

Lutero rimetteva la decisione alla coscienza del singolo, rilevando che la pretesa avversione nei confronti della carne e degli alimenti “grassi” non era deducibile dai Vangeli. Anche il burro ebbe così la sua temporanea rivalsa, e per qualche tempo lo si spalmò sul pane senza troppi pentimenti. Almeno fino ad una cinquantina di anni fa e alla “scoperta” da parte dei dietologi americani della dieta mediterranea, che restituì alle olive e all’olio lo scettro di alimenti superiori.

Non solo da spremere

Le olive ( quelle che non diventano olio) non sono quasi mai protagoniste di complesse preparazioni. Vengono conservate in salamoi e usate per arricchire e decorare pizze, insalate e pietanze di ogni tipo. Anzi, forse il meglio di se lo danno accompagnando un fresco aperitivo. Non bisogna però dimenticare che proprio la cucina italiana offre alle olive l’occasione per stupire. In Sicilia le più carnose sono imbottite con piccanti lingue di peperoni, mentre nella zona del Piceno, e in particolare ad Ascoli, le olive ripiene sono una tradizione antichissima. La ricetta prevede ingredienti gustosi: carne, formaggio, pane grattugiato, uova, farina, aromi a piacere, e soprattutto le olive più grandi e tenere. Pare che già ai tempi dei Romani in molti ne andassero pazzi. Lo conferma il Poeta Marziale, che nei suoi Epigrammi trova il modo di citare le olive del Piceno quali desiderabili prelibatezze.

Fonte Anita Tocci

L’Arte del Convivio

L’Arte del Convivio.

Dalla disposizione dei posti a tavola alla scelta dei piatti, dall’abbinamento dei vini alla giusta presentazione delle portate: ecco come organizzare un pranzo ben riuscito.

E’ veramente un’arte, quella di essere un’ospite perfetta. Un’arte che nasce da un’insieme di capacità: quella di saper riunire una compagnia stimolante e piacevole, di ricordare le preferenze gastronomiche dei vari invitati, di creare un ambiente armonioso e tranquillo, di trovare sempre qualcosa di gradevolmente insolito da offrire.

Un’arte che, dall’altra parte, si può affinare nel tempo tenendo presenti le preziose indicazioni suggerite dal moderno galateo.

DEFINIAMO IL MENU’

La regola prevede non meno di tre e non più di cinque portate. Inoltre occorre evitare di presentare due volte pietanze e verdure della stessa qualità (ad esempio pasta al pomodoro e scaloppine alla pizzaiola). Se non si conoscono alla perfezione i gusti degli invitati meglio tralasciare piatti esotici o molto piccanti; la norma generale vuole comunque che i piatti più leggeri e delicati precedano sempre i più robusti e saporiti. In ogni caso, se si tratta di una cena si sceglieranno piatti più facilmente digeribili. E non dimentichiamo che la frutta va sempre servita alla fine del pasto. Ecco due esempi di menù per un pranzo e una cena:

PRANZO

  • Antipasto
  • Primo piatto asciutto
  • Carne o pesce con due verdure
  • Formaggio
  • Frutta

CENA

  • Minestra in brodo
  • Sformato o soufflè
  • Carne o pesce con contorno
  • Dolce
  • Frutta

 

DOV’E’ IL MIO POSTO?

 

Nel caso in cui i commensali siano un buon numero – dagli 8 ai 12 – l’assegnazione dei posti può rivelarsi basilare per la buona riuscita del pranzo. Si faranno sedere vicine persone con affinità di gusto, ambiente o attività, che trovino facilmente qualche argomento di conversazione. Al di là di questo principio generale, riguardo i posti in tavola il galateo stabilisce inoltre alcune regole:

  • i padroni di casa si siedono a capotavola, l’uno di fronte all’altra;
  • si alternano, se possibile, uomini e donne;
  • gli invitati considerati di maggior riguardo (per età, perché festeggiati, o altro) si fanno accomodare alla destra dei padroni di casa;
  • si separano le coppie di coniugi, ma non i fidanzati.

IL PRANZO E’ SERVITO

Quando si organizza un invito a tavola, ci si preoccupa di apparecchiare con particolare cura, aggiungendo sulla tovaglia anche qualche dettaglio raffinato: un candelabro elegante, un centrotavola floreale, simpatici segnaposto.

Le vivande si presentano nei piatti da portata che si porgono da sinistra, cominciando dalla signora seduta a destra del padrone di casa. Proseguendo si servono tutte le signore fino alla padrona di casa, e quindi gli uomini, a partire dall’uomo alla destra della padrona di casa.

Ogni portata va servita due volte, ad eccezione delle minestre in brodo, dei formaggi e della frutta (che naturalmente non si negano all’invitato che ne chiede il bis).

I piatti si sostituiscono (togliendoli da destra) ad ogni cambio di portata, ma solo quando tutti i commensali avranno terminato. Il pane, nell’apposito piattino, si rimpiazza prontamente prendendolo dal cestino con le pinze.

 L’IMPORTANZA DEL DESSERT

Il dolce spesso rappresenta la portata più scenografica, e attesa, dell’intero pranzo. Proprio per dargli maggior rilievo, il galateo consiglia di ripulire la tavola prima di servirlo, togliendo il pane avanzato e le briciole con l’apposita spazzola.

Ma come vanno serviti i diversi tipi di dessert?

Le torte vanno presentate intere, poi tagliate in tavola a piccole fette.

La piccola pasticceria si porge ai commensali sopra un vassoio.

Creme, mousse e budini si possono offrire nelle coppe individuali.

Questi ultimi, di consistenza morbida, vengono chiamati “dolci al cucchiaio” perché appunto si consumano esclusivamente con il cucchiaio da dessert.

Per i dolci di media consistenza basta la forchettina, accompagnata dal coltello solo nel caso di dolci più duri, come le crostate.

Infine, caffè e liquori non si servono a tavola ma in salotto.

TRA BIANCHI E ROSSI

Un tempo per ogni portata si usava servire un vino diverso, oggi anche in un pranzo di una certa eleganza i vini possono essere solo 3: un bianco, un rosso vecchio e un vino per il dessert.

Ecco una guida di pratica consultazione con i giusti abbinamenti tra vivi e vivande.

Antipasti freddi di pesce, salumi, uova, verdure: vini bianchi secchi (Soave, capri, Verdicchio, Coronata).

Antipasti caldi: vini bianchi leggeri ( Cortese, Vermentino di Gallura).

Ostriche, frutti di mare, salmone affumicato: grandi vini bianchi ( Cinqueterre, Corvo, Frecciarossa bianco).

Caviale: Vodka ghiacciata.

Minestre in brodo: vini bianchi corposi ( Cinqueterre, Lacrima Christi, Terlano, Vernaccia).

Minestre asciutte di pasta e riso: si varia a seconda del condimento. Se a base di pesce o verdure, vini bianchi secchi; se a base di carne, vini rossi leggeri.

Zuppa di pesce: rosati di buon corpo o vini bianchi abboccati e vellutati ( Castelli Romani, Est Est Est, Albania).

Pesci: vini bianchi secchi o leggermente abboccati (Brolio bianco, Tocai, Bianco di Portofino).

Carni bianche o pollame: vini rossi, profumati di medio corpo (Valpolicella, Bardolino, Grignolino).

Carni rosse di lunga cottura: (arrosti, brasati e selvaggina): vini rossi corposi invecchiati (Barbaresco, Barolo, Chianti vecchio, Brunello di Montalcino).

Carni rosse alla griglia: vini rossi giovani (Chianti Classico giovane, Sangiovese di Romagna).

Lessi: vini rossi generosi (Dolcetto, Barbera, Bonarda, Lambrusco di Sorbara).

Funghi: vini rosati (Rosato Bolgheri, Bardolino Chiaretto, Lagrein Chiaro).

Formaggi stagionati e molto saporiti: grandi vini rossi invecchiati.

Formaggi freschi e delicati:  vini bianchi leggeri e profumati.

Dolci: spumanti demi-sec o vini bianchi dolci o abboccati.

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yogurt

Yogurt: alimento vivo

YOGURT: ALIMENTO VIVO

 

PRESENTE SUL MERCATO DA MOLTO TEMPO, HA TROVATO GRANDI CONSENSI SOPRATTUTTO IN QUESTO ULTIMO DECENNIO, PERCHE’ SANO, RICCO DI FERMENTI E “VERSATELI”.

Anche gli italiani negli ultimi anni hanno scoperto lo yogurt, tanto che, in tutti i suoi gusti, occupa sempre più spazio sui banchi di negozi e supermercati.

 Se in passato veniva utilizzato quasi esclusivamente nelle diete dimagranti, oggi entra nell’alimentazione di tutti, in modi diversi, in quanto viene considerato un cibo salutare e sicuro,un cibo salutare e sicuro, ma anche buono e capace di combinarsi molto bene con altri alimenti (come frutta e cereali) entrando nella preparazione di tante ricette dolci e salate.

COME NASCE

La materia prima impiegata per la produzione dello yogurt è il latte fresco; migliore è la qualità del latte di partenza, migliore è lo yogurt che ne deriva. Il latte viene pastorizzato, omogeneizzato e, una volta portata alla temperatura di 40°/45°, viene addizionato di colture selezionate di fermenti lattici: streptococcus thermophilus e lactobacillus bulgaricus. I fermenti, trovandosi in un ambiente favorevole, cominciano a nutrirsi e a riprodursi velocemente.

Questa rapida crescita determina la trasformazione di parte del lattosio (zucchero del latte) in acido lattico, che provoca la coagulazione spontanea del latte e quindi il passaggio da uno stato liquido ad una consistenza assai più densa e cremosa.

Il latte coagulato viene eventualmente addizionato con altri ingredienti come zucchero e frutta, poi reso omogeneo e confezionato negli appositi vasetti.

Negli “yogurt compatti”, invece, la fermentazione del latte avviene direttamente nel vasetto. Questo diverso modo di procedere non determina comunque sostanziali differenze di qualità tra lo yogurt omogeneo e quello compatto.

LE SUE VIRTU’

Lo yogurt è un prodotto ideale per l’alimentazione quotidiana di bambini, adulti, sportivi e anziani, perchè fornisce tutti i componenti del latte in forma più digeribile e assimilabile. L’attività vitale dei fermenti porta a un leggero arricchimento in aminoacidi essenziali, la componente più nobile delle proteine, e di alcune vitamine del gruppo B ( in particolare la niacina, e l’acido folico). Inoltre, il calcio diventa più facilmente assimilabile dall’organismo. La limitata quantità di lattosio rende, infine, lo yogurt ideale per chi fa fatica a digerire il latte.

Ciò che contraddistingue questo alimento è soprattutto la ricchezza in fermenti lattici vivi. Appena prodotto ne contiene almeno 10 milioni per grammo: in un cucchiaino si può arrivare a un miliardo di fermenti. Grazie a questi preziosi microrganismi, esercita un’azione antimicrobica, stimola l’attività dell’intestino ed aiuta a riequilibrare la flora batterica intestinale, soprattutto quando è stata danneggiata da una terapia antibiotica. Importantissima è quindi la freschezza del prodotto, perché la presenza dei fermenti lattici vivi diminuisce progressivamente con il passare dei giorni. I fermenti si mantengono vivi e vitali per 35-40 giorni, tanto che, dopo due mesi dalla produzione, in un vasetto se ne trovano soltanto poche centinaia.

AL MOMENTO DELL’ACQUISTO

  • Leggere la data di scadenza degli yogurt scegliendo quelli con termine più lontano, dato il breve ciclo vitale dei fermenti. Per la stessa ragione conviene sempre consumare il prodotto in tempi brevi senza ” dimenticarlo” in fondo al frigorifero.
  • Scegliere gli yogurt senza coloranti, conservanti e aromatizzanti; l’assenza degli aromi, spesso, indica la presenza di una maggiore percentuale di frutta.
  • Non confondere lo yogurt con prodotti simili, in genere tenuti fuori dal frigorifero, che di solito non riportano il termine “yogurt” in etichetta. Si ottengono con yogurt pastorizzato, si conservano più a lungo, ma senza i preziosi fermenti vivi. In alcuni paesi dell’UE si può utilizzare la dicitura “yogurt” anche per questo dessert, quindi, conviene sempre controllare la provenienza, e preferire il prodotto nazionale.
  • Controllare il prezzo al chilo, in quanto i singoli vasetti possono avere volume diverso, pertanto i prezzi non sono sempre confrontabili.
  • Preferire lo yogurt bianco, unendo prima del consumo, a piacere, pezzi di frutta fresca, miele, marmellata, fiocchi di cereali, cioccolato a scaglie, ecc…

 

BENEFICA VARIANTE

Da qualche tempo i due fermenti “classici” sono affiancati da altri definiti spesso “probiotici” : tra i più diffusi, il Lactobacillus acidophilus, che resiste meglio all’azione dei succhi gastrici e ha maggiori probabilità di raggiungere vivo l’intestino, e il Bifidobacterium bifidus, il batterio che si trova nell’intestino dei neonati allattati al seno. Si ritiene che abbiano un’azione positiva sulla flora intestinale, e quindi, sulla funzionalità e la salute di tutto l’organismo.

I prodotti ottenuti con questi ed altri fermenti diversi da quelli “originali” non possono essere chiamati yogurt: vengono perciò definiti in etichetta “latte fermentato”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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